Sono le fabbriche dismesse, quegli edifici che diventano Archeologia Industriale perchè dovrebbero raccontare com’era produrre e fabbrica molti anni fa, e che si trovano ai confini del mondo urbano.
Sono luoghi di silenzio. Luoghi che si affacciano anche sul mare, in attesa di bastimenti da cui scaricare materie prime e caricare prodotti finiti. In cui i muri dividono le persone de quello che accede fuori, oppure, nella migliore delle ipotesi lasciano intravedere e permettono di cullare il sogno di essere nuovamente liberi. Posti in cui il frenetico martellare delle macchine e la voce degli uomini è stato sostituito da una silenzio assordante e dal fruscio del vento che passa attraverso i buchi delle pareti.
Una dimensione zero. Un luogo in cui manca anche l’aria per l’eterno senso di solitudine e di smarrimento che restituisce la pazza impressione di essere entrato in un posto non tuo, nel quale è richiesta la stessa cortesia e lo stesso rispetto di quando entri in casa di altri. Perché sei a casa di altri. Sei a casa delle vita che adesso non c’è più, del lavoro che adesso non c’è più, delle speranze fatte a fette. E mentre loro sono via tu entri come un ladro a frugare nei loro ricordi.
Il vuoto più assoluto lascia immaginare quello che è stato. Alcuni resti parlano di procedure e metodi di lavorazione, ma è la natura che adesso recupera spazio avvolgendo tutto e trascinandolo via. Inglobandolo. Come una madre affettuosa che raccoglie il proprio figlio, così la natura si riprende il suo spazio facendo cresce nuova speranza in quei posti dove ormai tutto sembra senza vita.
E anche cambiando luogo tutto sembra identico. Vecchie macchine arrugginite sembrano anziani sonnacchiosi, pronti a raccontare le loro storie di quando erano giovani e mostravano i muscoli ad un futuro d’aggredire con i denti.
Il reale lascia spazio all’illusione, al non reale, al gioco di prestigio della mente. Le figure si sovrappongono, si riflettono simmetriche, creano giochi ed effetti visivi che invertono, capovolgono, stravolgono la logica comune. E non sai dove ti porteranno. Se lungo il percorso di una scale che sale, o a capofitto, lungo un sentiero di scalini per correre lontano da questo mondo incantato.
Così quello che era il mezzo tramite cui attivare tutto è l’esempio che tutto è finito. Non c’è più nessun interruttore da azionare. Non c’è nessuna forma di energia che passa da qui. Non c’è più niente di vitale. Solo un vecchio copertone appeso ad un filo, forse il gioco di qualche bambino, che ha abbandonato pure lui questo posto che non merita più l’attenzione di nessuno.
E mentre frugo nelle mie tasche con la paura di aver lasciato anche io qualcosa tra queste mura e sopra queste pietre, mi guardo attorno alla ricerca della direzione di provenienza. La bussola delle mie emozioni è spenta. Non c’è nessun nord a fare da riferimento. Tutto e silenzioso ed assordante, tutto è asettico e nauseabondo, tutto è chiaro e buio. Devo ritrovare il mio filo per ritornare al mondo di provenienza e ritornare nella mia dimensione.
Ed anche io abbandono questi luoghi senza però scordare mai le vite, le speranze e i sogni che ci sono stati e che la notte, spesso, vengono ancora a dormire qui.