Mi sono preventivamente informato sulla possibilità di pubblicare questo tipo di fotografie e credo di non violare nessuna legge sulla privacy, ma chiedo cortesemente ai moderatori di valutare l’oscuramento del mio post in caso di differente interpretazione.
Da ateo assoluto quale sono (e da convinto sostenitore che dopo la nostra morte non ci sia che il nulla) devo ammettere che il culto dei morti mi ha sempre coinvolto in tutte le sue forme. Vado regolarmente al cimitero ad onorare la memoria dei miei parenti più cari, nella certezza di aver compiuto un gesto di cui sento la necessità e (contemporaneamente) nella consapevolezza della sua totale inutilità. Quando vado in giro per il Nord Europa mi fermo ogni volta che incontro uno dei classici cimiteri confinanti con le chiese antiche, e ci sono pochi cimiteri militari che io non abbia visitato. Al di là della (per me) incomprensibile valenza religiosa, in questi luoghi così belli e tranquilli riesco a provare una sensazione di sereno estraniamento pari solo a quella che provo sulle più sperdute scogliere che si affacciano sull’oceano.
Ma, a pensarci bene, i cimiteri sono comunque strettamente confinati in uno spazio ben definito, al di fuori del quale qualsiasi riferimento alla morte è tabù. Ne è la riprova che il passaggio di un carro funebre non è mai piacevole, le agenzie che si occupano di certe attività le praticano con molta discrezione e, quando alcuni servizi funebri sono stati pubblicizzati sui cartelloni stradali, si è gridato allo scandalo.
Vedere quindi una lapide a bordo strada provoca spesso una sensazione di disagio, è un qualcosa di assolutamente fuori posto con l’aggravante del tabù. Ma, nonostante tutto, non posso nascondere che gli altarini metropolitani abbiano sempre catalizzato la mia attenzione. Non li ho mai guardati distrattamente, anzi… li ho mentalmente catalogati e, quando ho potuto, mi sono fugacemente soffermato ad osservarli con un misto di commozione ma anche di vergogna, come se la mia attenzione fosse morbosa e quindi assolutamente riprovevole. E le domande che mi sono sempre fatto sono: perché? Come è possibile che a qualcuno venga in mente di porre una lapide nel posto esatto in cui il congiunto ha perso la vita in maniera così violenta? Ha senso commemorare un luogo che invece dovrebbe essere dimenticato per la tragedia di cui è stato teatro, un luogo che ti provocherà una stretta allo stomaco ogni volta che ci passerai accanto? Sinceramente non riesco a rispondere a questa domanda, forse perché per giudicare certe scelte bisognerebbe vivere certe situazioni.
Al di là delle mie disquisizioni, quello che mi ha sempre colpito in un altarino metropolitano è il suo essere alieno, avulso dal contesto che lo circonda, come se fosse un piccolo mondo di pochi decimetri cubi materializzatosi casualmente in un luogo improbabile, assediato dalla vita metropolitana che continua indisturbata a scorrergli affianco nell’indifferenza totale. E l’estraneità di questi mini-mondi viene accentuata dallo stato di apparente abbandono nel quale versano quasi tutti: fiori secchi oppure di plastica deteriorata, bottiglie semivuote, sciarpe della squadra del cuore ormai nere ed illeggibili, peluche sfatti che pendono dovunque, scritte di ogni tipo sbiadite dal tempo, fotografie scolorite e cotte dal sole, oggetti personali diventati improvvisamente pubblici, e tutt’intorno vegetazione incolta e sporcizia di ogni tipo. Ecco, è proprio questo contrasto che ho voluto catturare con le mie fotografie, enfatizzando l’asincronia tra la disperata tristezza evocata dal mini-cimitero e la strafottente indifferenza del degrado metropolitano.
E così, durante due mattinate d’agosto, me ne sono andato in giro con il motorino nella zona sud di Roma, seguendo un percorso che avevo attentamente pianificato da quasi un anno. L’utilizzo del motorino è stato quasi obbligatorio, vista la difficoltà nel fermarsi nei pressi di alcuni altarini, e devo dire che (contrariamente a quanto mi sarei aspettato) non ho ricevuto nessuna manifestazione di sdegno da parte dei passanti, anche se qualche occhiataccia mi ha colpito in pieno.
Dopo aver raccolto le fotografie ho dedicato qualche ora per le necessarie fasi di selezione e post-produzione, ma non mi era mai capitato di provare così tante emozioni davanti al mio monitor. Non capita spesso di dover lavorare all’immagine di una testimonianza così assoluta di affetto, struggente e disperata, nell’improbabile tentativo di farla durare “Per Sempre”.
Un breve cenno riguardo l’aspetto tecnico: ho scattato tutte le foto con l’inossidabile accoppiata Nikon D90 + 18-70, immaginando fin dall’inizio che le foto sarebbero state convertite in B/N. Per la conversione ho utilizzato Lightroom 5 aumentando il contrasto con decisione e spesso variando leggermente l’esposizione.










