Ma ancor prima era stata avviata un’attività di ricognizione e di censimento che aveva interessato varie aree dei territori coloniali italiani, dalle coste mediterranee fino ai suoi estremi confini orientali e meridionali.
Tra il personale civile e militare che si dedicò a queste attività vi era un giovanissimo sottotenente che spesso dimenticava in tenda il moschetto e se ne usciva con altro a tracolla.
Nel percorrere piste, attraversare deserti e fermarsi in villaggi, il sottotenente sapeva che quel mondo presto non sarebbe stato più lo stesso. Sapeva che il colonialismo stava scardinando culture ed identità, lasciando ferite profonde, che non si sarebbero mai più rimarginate.
Il sottotenente coltivava la speranza di riuscire a fermare il tempo sui disperati tentativi di sopravvivenza di uomini e culture sempre più isolati, disorientati, indifesi.
Fermare il tempo era il suo sogno.
Imprigionandolo dentro alla sua Voigtländer d’ordinanza.
Con qualche cedimento all’emozione sto recuperando l’archivio fotografico del sottotenente Aldo D.
Vecchie stampe ingiallite, sviluppate con mezzi di fortuna ed in condizioni precarie.
Stampe miracolosamente salvate dalla disfatta di Sidi El Barrani e conservate gelosamente durante gli anni di prigionia nei campi inglesi di Calcutta e Bombay.
Stampe che sono riuscite a dare corpo a quel sogno.
Hanno fermato il tempo, come ha voluto fare allora mio padre e come sempre sa fare la fotografia.
Ho scelto di digitalizzare le vecchie stampe di mio padre con la mia D300 ed il 60 macro, lasciando lo scanner nell’armadio.
La scelta non è casuale.
Avvicinando l’occhio al mirino, mi illudo di tornare indietro nel tempo, dentro ad un’altro occhio, mentre inquadrava la stessa scena e premeva il pulsante.
Un debole click che si perdeva nel soffio del vento. Un vento caldo che portava voci e rumori sconosciuti di un mondo che, giorno dopo giorno, andava perdendosi.





