Seguo il consiglio di Giacomo Sardi e continuo la storia del mio viaggio in Etiopia in questa sezione abbandonando il post creato in reportage.
Le foto sono qui..
L’aereo della Ethiopian Airlines atterra ad Addis Abeba in perfetto orario.
Sono le 6.30 del mattino del 2 Gennaio, passo i controlli doganali, faccio il visto ed esco all’aperto dove, insieme a Suor Teresa, mi attendono Giovanni e gli amici di “Parma per gli altri”.
Giovanni è membro del direttivo di PARMA PER GLI ALTRI, organizzazione non governativa,che opera nel volontariato a favore dei Paesi in via di sviluppo realizzando progetti soprattutto in Etiopia ed Eritrea
Passerò le prossime 2 settimane con loro visitando alcune delle zone più povere dell’Etiopia.
Saremo ospitati, nelle loro missioni, dalle Suore della Divina Provvidenza ; la congregazione, che ha la casa madre a Piacenza, nel 1973, dopo aver operato in Italia dedicandosi alla gioventù abbandonata e ai ciechi, ha aperto la prima missione in Africa a Mendida, che è a circa 150 km a nord di Addis Ababa sull’ altipiano etiope dove vivono gli Amhara.
L’Etiopia è uno degli stati più poveri dell’ Africa.
L’ultimo “World Health Report” dell’ Organizzaione mondiale della sanità riporta dati impressionanti. Solo alcuni di questi : 76 milioni di abitanti con un tasso di crescita pari al 2.6% (Italia 0.1), vita media 43/46 anni ( Italia 80/84) e mortalità sotto i 5 anni pari al 19.6% (Italia 0.06).
Sarà una giornata lunga, giusto il tempo per una rinfrescata e poi usciamo per andare a cambiare qualche euro, comprare verdura, una serratura, raccordi idraulici e altro materiale che porteremo a Mendida, villaggio a 150km a nord, meta della prima tappa del viaggio.
La strada per Mendida è asfaltata per i primi 130 km, poi a Debre Birhan si volta a sinistra e per 20km si viaggia su strada sterrata,il GPS riporta l’altezza; dai 2600 metri di Addis Abeba saliamo fino ai 3000 di Debre Birhan per arrivare ai 2800 di Mendida dove arriviamo verso le 6 del pomeriggio, giusto in tempo per vedere il sole tramontare sulla pianura sottostante.
Giovanni mi racconta che nel 2001, quando arrivò per la prima volta in Etiopia, a Mendida la luce elettrica ancora non esisteva.
Portare la luce a Mendida fu uno dei primi progetti a cui partecipò; gli operai scavavano a mano le buche per i pali della luce e sempre a mano, aiutandosi con semplici funi, li drizzavano nella pianura lungo la strada che separa Mendida da Debrè Berhan, 20 Km di linea elettrica voluta dalle suore e dalla comunità locale con l’aiuto di volontari e di Parma per gli Altri.
Oggi, dopo alcuni anni, l’arrivo dell' energia elettrica ha permesso un primo sviluppo delle realtà locali, ad esempio i mulini per la macina delle granaglie sono più potenti e lavorano con più continuità rispetto a prima e i pochi pozzi d’acqua funzionano più regolarmente non dovendo dipendere da gruppi elettrogeni spesso guasti o senza carburante.
Al nostro arrivo in missione incontro Wolfango, sua moglie e Silvana; anche loro, come Giovanni, sono persone che hanno avuto successo nella vita, Wolfango è titolare di una ditta che esporta i suoi prodotti in tutto il mondo, Silvana parla correntemente 4 lingue, insegna ed è consulente di varie aziende, e che preferiscono passare le loro vacanze, qui in Etiopia in mezzo alla gente piuttosto che in un qualche asettico villaggio turistico di gran moda.
La sera, dopo mangiato (ottimo il cibo preparato dalle suore), parliamo a lungo, a la frase più importante è questa :
“L’aiuto che noi riusciamo a dare è sempre inferiore alla ricchezza che riportiamo con noi a casa.”
E’ la prima sera in Etiopia, posso solo ascoltare e sperare che quello che ho sentito sia vero, ma ora al ritorno in Italia, mentre sto scrivendo queste note posso affermare con convinzione che è assolutamente vero.
Qualunque cosa hai potuto dare ricevi in cambio molto di più.
Non sono solo i sorrisi della gente, non solo la loro gratitudine, ma la netta consapevolezza che gli aiuti sono concreti ed efficaci.
Ogni giorno i neonati e i bambini più poveri partecipano ad un programma di alimentazione che garantisce loro un pasto quotidiano, spesso sono i fratelli o le sorelle,di poco più grandi, che si caricano sulle spalle i piccoli e che in quel modo, oltre ad essere di aiuto alle madri , trovano anche loro di che sfamarsi con un piatto caldo.
I bambini sponsorizzati, nelle varie missioni, sono oggi più di 2000. Ogni mese le suore convocano tutte le mamme per dare loro il contributo mensile. Anche se questa procedura è onerosa permette di verificare lo stato dei bambini e capire se la famiglia ha particolari bisogni.
I bambini scelti per l’adozione a distanza provengono da famiglie con gravi disagi; spesso sono orfani che vengono affidati a “nonne” che in cambio di una retta mensile li accudiscono oppure vivono in case con padri sempre ubriachi di arakè, la grappa locale.
Conoscendo le varie situazioni si valuta se è meglio dare soldi oppure cibo e indumenti, ma una delle cose più tristi, durante la distribuzione mensile, è vedere madri che se ne vanno piangendo perché gli sponsor hanno smesso di pagare. Le suore continuano a sostenere autonomamente le famiglie per alcuni mesi ma poi sono costrette a smettere.
E’ fondamentale che chi si impegna per un’adozione a distanza possa garantire i versamenti con continuità.
Altrimenti è meglio aiutare in altri modi.
Più di 300 bambini a Mendida frequentano la scuola d’infanzia e ogni giorno decine di persone salgono alla “clinica” per essere curati. Ancora oggi la maggior parte delle nascite avviene nelle capanne, ma molte sono le donne che vengono in missione a partorire, soprattutto con gravidanze a rischio.
I progetti nascono sempre dalle esigenze della gente e sono proposti dalle suore, a volte nascono dalle situazioni più strane. Alcuni anni fa suor Elfiness, una delle suore più dolci di Mendida, per un grave errore, fu costretta a passare alcuni giorni in carcere.
Questa fù l’occasione per avvicinarsi alla vita dei carcerati che vivono in condizioni subumane. La sera sono costretti a dormire in stanzoni fatti di cica su tavolacci a più piani l’uno attaccato all’altro con un unico bugliolo per più di 200 persone ricavato da un barile tagliato a metà. E di giorno, sotto il sole, con telai a mano tessono i gabi, abito per il giorno e coperta per la notte. Lavorano seduti per terra con le gambe dentro a buche che, durante la stagione delle pioggie, si riempiono d’acqua. Il direttore del carcere chiese a Giovanni e ai suoi amici se potevano aiutarli a costruire un laboratorio dentro cui mettere tutti i telai.
L’anno dopo fu inaugurato. Era stato rapidamente costruito con il lavoro dei carcerati e con il loro aiuto.
E mentre Giovanni mi racconta questa storia posso percepirne la grande soddisfazione che ebbe nel vedere la gioia di tutti i prigionieri e l’ emozione del direttore del carcere quando il laboratorio fu inaugurato alla presenza del governatore e di tutti i direttori delle carceri dell’Etiopia. Oggi attorno al laboratorio i carcerati hanno costruito un’aula scolastica, un ambulatorio (purtroppo senza medicine) e hanno detto che vorrebbero finalmente costruire i bagni in sostituzione del tragico bugliolo.
Siamo andati a visitare il carcere, ho potuto visitarlo e fotografarlo con la piena collaborazione dei detenuti.
Sandra e Wolfango ci raccontano che hanno avuto modo di parlare con il direttore delle scuole statali di Mendida, gli alunni sono circa 3000, le classi in media sono di 60 ragazzi, non hanno finestre di vetro, ma di lamiera e dato che fa freddo le tengono chiuse con il risultato che studiano praticamente al buio.
Il giorno dopo andiamo a documentare la situazione, la cosa che più impressiona è che pur nella estrema povertà i ragazzi sorridono, il ns arrivo è occasione di festa, il direttore ci mostra tutte le aule, le attrezzature didattiche fatte in casa e ci chiede aiuto per migliorare una situazione oggettivamente difficile.
Il giorno prima ho visitato l’asilo e la scuola gestite dalle suore e finanziate da “Parma per gli altri” che provvede al pagamento degli stipendi degli insegnanti, ecco uno dei casi in cui si tocca con mano quello che può fare l’aiuto erogato direttamente sul territorio.
Le scuole e l’asilo delle suore, pur nella loro semplicità sono un paradiso rispetto alla struttura che abbiamo visitato.
Dopo 4 giorni a Mendida è ora di tornare ad Addis Abeba per poi proseguire verso sud verso Shelelà, un villaggio a 250 Km di distanza.
Il viaggio è lungo, la strada è buona per i primi 150km, ma poi diventa un inferno di polvere e buche, gli ultimo 20km spesso non si riescono a percorrere in jeep, ora è la stagione secca ed è percorribile pur se con molta difficoltà, ma durante la stagione delle piogge non è raro che si debba andare a piedi, come d’altra parte fanno quasi tutti.
Qui chi ha una biciclettà è già un privilegiato.
A Shelelà ci aspettano Antonia e la moglie di Wolfango, hanno portato e distribuito ai bambini sponsorizzati i regali di natale arrivati dall’Italia.
Arriviamo la sera, ormai è buio e bisogna fare in fretta che la messa di Natale sta per iniziare. In Etiopia vige il vecchio calendario Giuliano e Natale cade il 5 di Gennaio. Entriamo nella chiesa stracolma e veniamo indirizzati verso i posti d’onore. La messa in amarico è suggestiva, c’e’ gioia e partecipazione.
Il giorno dopo entriamo in chiesa dopo la messa e siamo accolti da un grande applauso, andiamo a visitare il nuovo mulino per macinare il teff (il cereale alla base della loro alimentazione) che è stato costruito con i finanziamenti di Giovanni, Wolfango e i loro amici.
E’ l’occasione, visto il risultato, per confermare ai responsabili del villaggio che siamo disponibili a finanziare l’acquisto di una nuova macina per il berberè, cosa che eviterà alle donne di fare 20 km a piedi per andare al mulino pù vicino.
Nei 5 giorni che trascorrerò a Shelelà visiterò alcuni dei villaggi nei dintorni dove sono stati portati a termine altri progetti di solidarietà come la fornitura di banchi per alcune delle scuole pubbliche.
Le rischieste che riceviamo sono in fin dei conti poca cosa per noi (banchi nuovi, gettate di cemento al posto della terra battuta e del fango come pavimenti delle aule, una macina per il nuovo mulino, un nuovo computer per le suore, medicine per la clinica), ma sono importanti per le popolazioni locali e sopratutto nascono dalle loro esigenze e per questo sono particolarmente efficaci.
L’acqua è naturalmente uno dei problemi maggiori, la zona non è povera d’acqua, ma non ci sono infrastrutture e condotte. Le donne fanno chilometri per andare alla fonte più vicina, caricarsi sulle spalle le taniche e portare l’acqua a casa.
Perforare un pozzo è molto costoso e spesso l’acqua si trova oltre gli ottanta metri di profondità, limite massimo per le pompe a mano.
A Shelelà l’acqua si trova a circa 130 metri di profondità ed è necessaria una pompa eletttrica per estrarla e l’elettricità non è presente nella campgna che circonda il villaggio. Alcuni pozzi sono stati perforati e dotati di pompe, ma molto rimane da fare.
E’ ormai tempo di rientrare ad Addis Abeba, un altro giorno di viaggio lungo strade sterrate, attraverso un paesaggio meraviglioso.
Lungo la strada un intero popolo che si sposta a piedi, ovunque donne e uomini che camminano andando o venendo da mercati, pozze d’acqua, paesi distanti anche decine di chilometri.
Ad Addis Abeba l’inquinamento è altissimo, ogni macchina, ogni furgone, ogni camion emette dallo scappamento un denso fumo nero, le polveri qui non sono sottili, sono ben visibili.
Come in tutte le città del terzo mondo le contraddizioni sono tante.
Accanto ai palazzo di vetro, ai centri commerciali, le bidonville. Nei negozi si trova tutto, anche il superfluo, ma i marcapiedi non esistono, si cammina sullo sterrato e quando piove nel fango. Passano machine di lusso e mezzi su quattroruote che non si capisce bene come facciano a muoversi. Ragazze in jeans all’ultima moda e ragazzi di strada la cui unica legge è quella del branco. A 200 km di distanza, a Shelelà, per avere l’acqua bisogna fare chilometri a piedi e qui si può andare all’Hilton a fare un bagno in piscina.
Ad Addis Abeba tanti dormono sugli spartitraffico in mezzo all’indifferenza generale, a Mendida o a Shelelà, i contadini ti salutano con il sorriso e ti mostrano con orgoglio le loro capanne dove dormono insieme alle capre e alle mucche.
Al mercato, uno dei più grandi d’Africa, si trova di tutto, moltissimo arriva dalla Cina, ma ancora oggi le donne fanno più di 10 km a piedi per andare nei boschi che circondano la città a raccogliere legna che in fascine da 20-25 kg portano poi al mercato.
L’Etiopia è un paese culturalmente e paesaggisticamente ricchissimo, questa volta non c’e’ stato il tempo per visitare qualcuno dei tanti luoghi che meritano di essere visitati, non ho potuto visitare il museo dove è conservata Lucy, lo scheletro del più antico ominide finora scoperto.
Non ho potuto visitare le chiese rupestri di Labilela o i parchi nazionali o le altre importanti attrazioni turistiche.
Però ho conosciuto gente meravigliosa e sono tornato con la consapevolezza che è possibile aiutare questo popolo con cose semplici ed efficaci e ho capito perchè Giovanni e i suoi amici preferiscono passare le ferie qui, semplicemente perchè si ottiene molto di più di quello che si dà.
Le foto...
Da questo lavoro è stato ricavato un libro che vedrà la luce fra pochi giorni e una mostra che si terrà a Milano a fine Novembre.
Il ricavato della vendita del libro andrà interamente a sostegno dei progetti aperti in Etiopia.
Grazie a tutti per aver dedicato un po' di tempo a leggere queste righe...