LO SBERLEFFO.
A Napoli vige il "pernacchio". Questa è una parola del dialetto, un termine onomatopeico dopotutto e vagamente guerriero, che fa pensare all'urto di una sciabola su un gambale. In realtà il "pernacchio" non è che un congruo sberleffo, ottenuto mediante specialissimi accostamenti delle labbra alle dita o al palmo o al dorso della mano, con emissione di fiato che ha varia forza e varia durata, secondo i propositi dell'esecutore. Chiedo scusa. Non converrebbe parlare del "pernacchio" se esso cominciasse e finisse nella sua innegabile trivialità; se non fosse, come credo, redimibile e trascendente. Il celebre virtuoso di sberleffi don Pasquale Esposito, notissimo fabbricante di fruste per cavalli nel rione Pendino, riuscì infatti, mancandogli la forza di modulare l'ultimo e il migliore dei suoi "pernacchi", a raffigurarlo: si può dire che egli lo rappresentò graficamente, si può senz'altro dire che lo scrisse.
Ritengo che per sapere che cosa è un vero sberleffo, uno sberleffo aulico e tuttavia moderno, personalissimo, innovatore e al tempo stesso rispettoso della tradizione, bisogna aver conosciuto don Pasquale Esposito. Era un uomo immenso, alto e adiposo al punto che qualcuno disse di lui: "Si circonda da ogni lato". Era sferico e taciturno; muto, letteralmente muto per chi non sapesse leggere nelle luci e nelle ombre del suo volto di eunuco, largo e sidereo come la luna. Don Pasquale non capiva che bisogno ci fosse di ricorrere alla parola quando con impercettibili movimenti, con avarissime contrazioni della faccia, e con sberleffi, si poteva dir tutto. Io gli debbo, Dio mi perdoni, la mia non poca scienza in fatto di sberleffi. Da lui appresi che c'è sberleffo e sberleffo. Per esempio il "pernacchio" non è la "pernacchia". Il primo può essere forte o debole, lungo o corto, massiccio o sdutto, aquilino o camuso: ma è sempre maschio, ma è costruttivo e solerte, ma insomma lavora. La seconda è molle e pigra; tumida, bianca, sdraiata, è come un'odalisca sui tappeti: femmina, basti dire, uno sberleffo che don Pasquale usava solo nei casi irrilevanti, per esempio in risposta a un'intimazione di pagamento dell'affitto, se non delle imposte, o quando un cliente gli faceva notare che il manico di una frusta non era sufficientemente tornito, e a lui mancava l'animo di rispondere con un brusco: "Non so che farci".
Don Pasquale Esposito era "figlio della Madonna", nel senso che della sua nascita non si sapeva nulla: aveva pochi giorni quando una sconosciuta lo depose sulla "ruota" del convento dell'Annunziata, tirò il cordone del campanello e con un fruscio di gonne e di pianto scomparve. A dieci anni fu richiesto da una ricca signora, che credette di identificare in lui il figlio illegittimo dal quale si era divisa proprio nel giorno in cui le monache avevano raccolto il futuro fabbricante di fruste; per qualche tempo costui visse negli agi, assaporando rari cibi e rari affetti; poi successive indagini stabilirono che la donna si era sbagliata di bambino, il trovatello riguadagnò l'ospizio e di là rivolse alla sorte, non ne dubito, il suo primo memorabile sberleffo. Diventato uomo, l'Esposito dovette convincersi che non usufruiva di nessuna speciale attitudine; quanto alla fortuna, che generalmente surroga l'ingegno, s'era già visto. Fu un pessimo barbiere, inabile nel radere guance e incapace di suonare strumenti a corda; una botteguccia di legna e carbone gli prese fuoco in piena estate, quando cioè non era neppure il caso di utilizzarne un po' di brace per riscaldarsi; nel "gioco delle tre carte", col quale, come gestore, ci si può sempre rifare, donne e bambini lo imbrogliarono perché era di mano pesante; come vetturino si affezionò al cavallo e per non svegliarlo rifiutava i rari ingaggi che capitavano dopo lunghe ore di posteggio; infine, a trent'anni, fu sommerso dall'adipe benché si nutrisse quasi esclusivamente di foglie di lattuga, e fingendo di fabbricare fruste (al solo scopo di salvare le apparenze, o perché si sapesse dove trovarlo) visse dei suoi impareggiabili sberleffi.
Individui di riguardo, talvolta anche rinomatissimi "guappi", si affacciavano nella bottega per dirgli:
"Veniamo a prendervi alle cinque in punto, c'è il discorso politico al Rione Amedeo".
Oppure:
"Possiamo contare su di voi, don Pasquale, per la lirica al Mercadante?"
Lo portavano sul luogo in carrozza, preservandolo da ogni scossa, come si porta uno "Stradivario" nella custodia. Un sostenitore di Porzio nelle elezioni di quegli anni, avendo uno sberleffo di don Pasquale ridotto al silenzio il candidato avverso (la cui fazione fu la prima ad applaudire cavallerescamente colui che esprimeva con tanto vigore e con tanta virtù il suo dissenso), gli si inginocchiò davanti e gli baciò le mani. Ah gli sberleffi di don Pasquale Esposito, la loro gamma infinita, il loro registro e le loro modulazioni. Egli aveva lo sberleffo totale, di petto, squassante, che lacerava l'aria avventandosi sulla terra e sul mare; ma aveva altresì lo sberleffo sottile e variegato, di testa, lo sberleffo a proposito del quale si potrebbe scrivere, come per il canto dell'usignuolo: "Era un tema di tre note..." e continuare per due pagine; inoltre aveva lo sberleffo affermativo e quello negativo, lo sberleffo tragico e quello comico; aveva lo sberleffo eseguito con le sole labbra, più interiore e più lirico, remoto e denso, che liberava come un fluido la sua carica di emotività e di inespresso; aveva lo sberleffo che dichiara e lo sberleffo che allude; aveva lo sberleffo che enunzia per sommi capi e quello che minuziosamente racconta; aveva sberleffi sostantivanti e sberleffi aggettivanti, aveva lo sberleffo come si ha il genio, senza limiti di volontà e di rappresentazione.
Sorprende che un uomo simile traesse guadagni da questo suo unico ed esemplare talento? Gli porgevano il compenso in busta, come si fa coi medici e con gli avvocati; quando passò a Labriola, dal rione Stella gli mandarono cacicavalli e galline. Don Pasquale Esposito continuava peraltro a fabbricare fruste nei ritagli di tempo, tacendo puntigliosamente, come se gli spessi tappeti di segatura della sua bottega avessero propaggini nella sua anima oziosa: era contento del suo stato? godeva o soffriva i suoi magistrali sberleffi? si voleva bene o si aveva in uggia don Pasquale? La verità è che egli, barricato nel suo grasso, chiuso nei suoi pesanti silenzi, piangeva e chiamava la madre. Quest'uomo sterminato, dagli incalcolabili volumi, pieno di meandri come un antico edificio, non era mai cresciuto: la sua sostanza, il suo nucleo rimanevano puerili, non più concreti di quando lo avevano deposto in fasce sulla "ruota" dell'Ospizio. "Mamma" invocava don Pasquale come i bambini di un anno. Se la raffigurava piccola e nera, stranamente piatta, come in un dipinto: confluivano in lei, agli occhi di don Pasquale, tutte le figure delle Madonne riverite a Napoli, da quella del Carmelo a quella di Pompei; la notte, quando il sonno infine lo rintracciava, egli aveva appena collocato in una cornice sacra, fra cuori d'argento, l'immagine della sua presunta madre. Don Pasquale la cercò finché visse; per decenni attese un'impossibile rivelazione dalla Superiora dell'Annunziata, si rivolse perfino a un avvocato. Costui effettuò indagini e pubblicò appelli: fu una pratica onerosa, che assorbì la maggior parte del denaro con cui gli intenditori degli eccellenti sberleffi di don Pasquale lo ringraziavano di esistere. Deduciamone che alla base di ogni vera arte sta sempre il dolore; molti si domandarono che cosa fervesse, d'amaro e d'ineffabile, negli sberleffi di don Pasquale Esposito: ed era il pianto di un bimbo in una culla inerte, mancante delle dita che, muovendola, vi conciliano il sonno e la fatica di crescere.
Don Pasquale toccava i quarant'anni quando il grasso gli arrivò, come si dice, al cuore. Fu messo a letto; e solo allora parve che Dio si ricordasse di lui. Giunse trafelato il legale, con la grande notizia (risoltasi poi ancora una volta in un errore) che una probabilissima madre di don Pasquale era stata scoperta a Ferrara. La donna già viaggiava per Napoli; forse quella sera stessa il moribondo avrebbe potuto vederla. "Arriverò a stasera, dottore?" domandarono gli occhi annebbiati di don Pasquale. Ma qualsiasi risposta si rese superflua: in quel preciso momento cominciò l'agonia, il grasso correva ormai verso l'infantile, irrisorio cuore del nostro virtuoso di sberleffi.
Non fu una cosa lunga; comunque vale la pena di accennare agli estremi istanti di don Pasquale. Ritenendo che non sarebbe stato facile captare un battito cardiaco, o del polso, in quella montagna di adipe, il sanitario che doveva constatare la morte accostò alla bocca dell'agonizzante uno specchietto. Ciò coincise col definitivo alito di don Pasquale, che appannò vagamente, in modo stranissimo, il cristallo. Erano piccoli cerchi opachi, intersecati da linee e da punti, sfumanti e arcani; erano segni non casuali, erano i simboli di un messaggio, le parti di un ideogramma. Questa fu l'opinione degli astanti, cabalisti di fede: che taciturno come sempre, e più ancora impedito dai sintomi della morte, don Pasquale si fosse avvalso dell'ultimo respiro per "scrivere" sullo specchietto un formidabile, supremo "pernacchio" alla vita che lo abbandonava. E così la penso anch'io, veramente.
Giuseppe Marotta.
L'ORO DI NAPOLI.
Bompiani, Milano 1947.