Tutte le mattine la stessa strada per andare in ufficio; gesti meccanici, movimento automatico verso la routine.
Intorno altre persone ingabbiate come te nelle scatole di ferro che li spostano da casa all'ufficio e viceversa.
L'ufficio è sicurezza, quotidianità, una sorta di piccolo paese in cui, fondamentalmente, vivi la tua vita.
E' lì che abiti, non a casa. Ci passi il grosso della tua vita.
Ma ci sono, proprio accanto a te, dei mondi paralleli che non percepisci.

Ci passi accanto tutti i giorni, ma sono distanti anni luce, anche se ne sei separato solo da una fragile cancellata.
Contengono un mondo che è stato esattamente uguale al tuo, ma che ora non è più.
Anche lì, una volta, c'era gente che entrava al lavoro tutti i giorni proprio come te.
E che, proprio come te, pensava che quel posto fosse il suo mondo: sempre uguale, noioso, routinario, ma sicuro.

Non è questo che cerchiamo, in fondo ? La sicurezza.
Sicurezza che a volte ci annoia ma che ci permette di avere un mezzo di sostentamento stabile.
E relazioni umane sicure, garantite da un contratto di lavoro: ti regalano una socialità surrogata.
In alcuni luoghi, l'incantesimo si è spezzato.
La sicurezza si è dissolta a causa di meccanismi inconoscibili: chi li chiama mercato, chi li chiama progresso, chi li chiama globalizzazione.
Fatto sta che un giorno il tuo lavoro cessa di essere redditizio per chi te lo ha offerto sino a quel momento. E tu vai a casa, dove non hai più nulla, perché era tutto li.
Artificiale, forzato ma sicuro.
E ora non c'è più.

Così il tuo mondo , il posto dove andavi al lavoro ogni giorno, piano piano sbiadisce, scolora.
Viene prima abbandonato e poi occupato da chi, a differenza di te, un posto di lavoro sicuro non l'ha mai avuto.
Dove c'era la sicurezza, ora c'è incertezza. Dove c'erano procedure chiare, contrattualmente codificate, torna la legge naturale.
Chi arriva prima prende il poco che c'è da prendere: rame, ferro e qualsiasi altro elemento che si possa rivendere per pochi spiccioli.

Ho voluto saltare la sottile barricata (anzi, non l'ho neanche dovuta saltare, perché era aperta) e andare a vedere uno di questi universi paralleli, a due passi da dove lavoro.
L'avevo visto spesso da fuori, e ora sono riuscito a entrarci.
Devo ringraziare Gionata ed Ettore che hanno avuto la pazienza e il tempo di accompagnarmi. Perché, in fin dei conti, io appartengo ancora all'altro mondo, quello sicuro dove ognuno ha, come scrisse Roger Waters, “recourse to the law”, quindi ho paura a varcare da solo il cancello.
Mi sono portato le macchine fotografiche e ho cercato di strappare a quel mondo qualche immagine.

Non ho voluto (o forse non ne ho avuto il coraggio) fotografare i nuovi abitanti del modo parallelo. Quelli che, sporchi di grasso e fuliggine, stanno smontando tutto ciò che sia rivendibile per sbarcare un lunario difficile e doloroso. Respirando polveri e tossine di chissà quale tipo (qui, quando ancora si era nel vecchio mondo, si fabbricavano farmaci).
Li abbiamo incontrati, ci sono venuti incontro. Un po' curiosi e un po' impauriti. Chi erano questi personaggi ben vestiti, con macchina fotografica e cavalletto ? Giornalisti ? Si, giornalisti era stata la loro impressione.
Ci hanno chiesto se stessimo facendo un servizio su quel posto, se avremmo pubblicato un pezzo del loro mondo.
A uno di loro ho detto: ”No, non sto lavorando. Lo faccio per passione. Mi piace fotografare posti abbandonati”.
Mi ha guardato con uno stupore indescrivibile e mi ha chiesto “Ti piace questo posto ?!”. Ho realizzato solo in quel momento quanto i nostri mondi fossero lontani: io trovo affascinante il loro inferno.
Un po' mi ha divertito ma ho anche provato un pizzico di vergogna.

In questi posti, dove tutto torna alla mercè del vento, dell'acqua e dei processi entropici naturali, devi interpretare tutto.
E' per questo, anche, che mi affascinano: non hai chiavi di lettura codificate, ma una serie di indizi da decifrare per tentare di ricostruirne la storia.
Non sono riuscito ancora a decodificare completamente questo posto. Si, ok, era un'industria farmaceutica, ma qualcosa non quadra completamente.
Ho provato ad organizzare quello che man mano vedevo, in tre categorie principali: laboratori, officine, uffici.
Osservando le macerie hai la sensazione di due piani temporali distanti, che mal si conciliano tra loro.
Quelle che ho definito “officine”, sembrano opere industriali di inizio 900. Non appaiono assolutamente compatibili con la precisione e l'efficienza sterile di un'industria farmaceutica.
Sono grezze.
Sono officine da grasso sulle mani, tonfi di maglio, sudore e bestemmie.

In un edificio c'è un immenso forno alto tre piani. Tutto in mattoni di cotto. E' un forno da fabbrica e non da farmaceutica.

Tra le macerie in terra ho trovato un portachiavi di alluminio realizzato interamente a mano: una sottile lamella su cui è stata impressa, con spaziatura e allineamento irregolare, la scritta OFFICINA MECCANICA.
Non è frutto di consumismo. Non è comprato bello e fatto, ma creato a mano.
E' di tanti tanti anni fa; quando le cose si “facevano” e non si “compravano”.

In un altro punto, appeso ad una parete, una sorta di calendario perpetuo fatto di legno, chiodi e piastrine di metallo.
Non è, anche questo, uno strumento da chimico farmaceutico.
Sembra un manufatto di inizi 900, quando forse era l'unico modo per avere un calendario che potesse mutare ogni mese senza dover buttare via nulla.
Mi è ignoto quale scopo avesse, cosa andasse appeso nelle piastrine di alluminio sotto ad ogni giorno.

Poi ci sono quelli che ho definito “laboratori”: provette, tubi, sostanze chimiche e strumenti di precisione. Qui siamo negli anni settanta e oltre.
Dal caos lasciato da anni di incuria e vandalismo, traspare chiaramente la precisione del chimico in laboratorio.




Ancora intatti, difesi da sottili portadocumenti in plastica, sopravvivono qua e là appunti di esperimenti vergati a mano con la grafia di persone di un altro tempo (quando si scriveva sempre a mano).

La fine di questo posto è stata rapida, non naturale: una sorta di Pompei postmoderna.
Ci sono ancora, sparsi qua e là, talvolta ordinatamente riposti nelle loro scaffalature o imballi originali, sostanze chimiche e medicinali ancora sigillati.



In uno dei laboratori ho trovato una catasta di cartoni contenenti scatole di un medicinale generico.
Erano tutti scaduti nel 2003 (quindi da almeno 8 anni) e il prezzo di una confezione (fiala da 3 mg, monodose, iniettabile) era di 125.91 euro.
Ne ho letto il nome e qualcosa si è acceso nella mia memoria, ma non riuscivo lì per lì a ricordare cosa evocasse.
Somatostatina... la ricordate ? La cura Di Bella. Anch'essa morta da tempo.

E poi alcuni macchinari, troppo pesanti per essere portati via dai predatori del ferro, resistono incuranti del tempo che passa.
Due suggestive e massicce autoclavi, che recano una targhetta sul portello, con la data di produzione e fabbricante: Società anonima Ing. De Franceschi, anno 1948.
Il portello si apre ancora con delicata fluidità, testimone di come a volte l'ingegno umano sappia sfidare il tempo.

La parte degli "uffici" si apre con una sala d'attesa a piano terra, che accoglieva il visitatore con un'estetica di altre epoche: poltrone in acciaio e simil-pelle che sembrano uscite dal futurismo anni '70 di 2001 Odissea nello spazio e l'immancabile stampa murale di stile Piranesi, come troveremmo ancora nelle sale di attesa dei notai o negli androni dei palazzi cosiddetti "signorili".

Negli uffici, siamo in un'era che arriva a ridosso dell'avvento del personal computing.
Si va dalle schede cartacee ai primi pallidi baluginii dell'informatica: harware IBM massiccio e grigio, lettori di floppy da 5 ¼ (quelli realmente “floppy”), calcolatrici LOGOS e macchine da scrivere elettromeccaniche dell'Olivetti.




Se ti soffermi a leggere velocemente qualcosa di quello che trovi, ricordi (anzi, riscopri) che, non tanto tempo fa, i documenti si trasmettevano da un ufficio all'altro con la lettera di accompagnamento. Di carta.
Ho potuto leggere “Caro Domenico, ti trasmetto in allegato......”, perché era su un foglio di carta.
Per chi come me ha vissuto solo l'ufficio con l'email, è pura e sublime archeologia burocratica.
Non ho potuto fare a meno di pensare che oggi del nostro esistere non resterebbe nulla.
Alla morte dei dischi del server su cui ci sono le nostre caselle email, ogni nostra traccia in azienda scomparirebbe per sempre.
Invece un foglio di carta, magari ammuffito, ingiallito e morso dai topi, è infinitamente più tenace nella sfida del tempo.

Tra le tante stanze, ce n'è una che ho soprannominato "la stanza del Trono".
Mi piace immaginare che fosse il luogo dove albergava l'eminenza grigia di questa azienda.
L'Uomo che tesseva i fili e aveva il controllo di tutto. E che archiviava nei suoi raccoglitori, le Carte Importanti, dove c'era la Verità.
Il Grande Vecchio.
L'Uomo che, per questo suo ruolo, non aveva una sedia comune, ma un Trono.
Quasi la poltrona in pelle umana di villaggiana memoria.

Come sempre, non so selezionare gli scatti fatti. Nessuno merita di non esserci (lo so, è un mio limite).
Qui ne ho riproposti solo alcuni (e già molti comunque, vorrete perdonarmi) ma sul mio spazio web li ho messi quasi tutti.
Ho però eliminato, nelle poche foto dove erano leggibili, tutti i riferimenti al nome dell'azienda. Non è in realtà interessante: era solo una delle tante farmaceutiche italiane fagocitate dai grandi gruppi monopolisti internazionali.
Non ho neanche pubblicato le quattro pagine fotografate nella bacheca sindacale dove è dettagliatamente descritto l'accordo per la chiusura dell'impianto e la collocazione in mobilità del personale nel non lontano 2007: una sorta di pudore me l'ha impedito.
Ho creduto fosse invece interessante pubblicare alcune altre cose, per cui vi rimando al mio sito:
- la scansione di alcuni fotogrammi di un filmato trovato per terra, che documenta uno dei tanti esperimenti animali compiuti chi sa dove e chi sa per quale futile motivo “scientifico”
- un agghiacciante tabulato, destinato al ministero della sanità in ottemperanza alle norme sulla vivisezione, dove sono descritti gli esperimenti compiuti e l'esito degli stessi sugli animali (cavie, cani, gatti). Ho appreso che non muoiono mai. Vengono, piuttosto, “sacrificati” [sic]
- un documento di autorizzazione del ministero della sanità, recante il timbro del Direttore Generale Poggiolini (si, proprio lui, ve lo ricordate ?)
Si, perché una delle cose che non è stata asportata è proprio la carta. E ce n'è una valanga: raccoglitori, schedari, cartelle. Sembra che sia stata lasciata lì a memoria del mondo che c'era. Avendo tempo e pazienza si potrebbe ricostruire, da tutta questa carta, una buona fetta della memoria storica di questo posto.
Per quanto riguarda gli uffici, ho potuto riconoscere solo quello di una funzione aziendale specifica. L'ufficio del direttore del personale. Oggi la sua scrivania giace in una pozzanghera verde, e accanto ha ancora abbastanza ordinata, la vetrinetta contenente i testi sacri. Primo fra tutti, in alto a destra, il corpo del codice del lavoro, dorso giallo.

Se vorrete continuare questo viaggio nella memoria, vi rimando all'intera galleria sul mio spazio web.
Un'ultima nota: di solito si suggerisce il vino adatto ad una pietanza.
Vorrei fare la stessa cosa anche per la visione di queste immagini: trovate e mettetevi in sottofondo “The nobodies” di Marilyn Manson. Non riesco a immaginare nulla di più maledettamente adatto.
E chissà se capiterà anche a voi quello che è successo a me quando sono tornato in ufficio, dopo la prima visita a questo luogo.
Mi si è materializzata per qualche istante una visione: anche la mia stanza era a soqquadro, coperta di polvere ed escrementi di piccione; il mio mondo si era spento esattamente come quello, e ora si stava aggirando per le stanze deserte un uomo sconosciuto, armato anche lui di macchina fotografica.
Osservava e documentava il passato, con un'emozione struggente e un enorme groppo alla gola.
(Attrezzatura usata: Nikon D70, Nikon D90, AF-S Nikkor 18-70, AF-S Nikkor VR 18-55, AF Fisheye Nikkor 10.5, Speedlight SB600, Manfrotto 190XPROB con joystick 322RC2)